15/03/13

Andrea Rea e Maryse Tripier, SOCIOLOGIE DE L’IMMIGRATION


Parigi, La Découverte, 2008.

Il volume prende in esame le teorie dell’immigrazione, soprattutto dagli anni Settanta in poi, discutendo allo stesso tempo dei problemi collegati a tali apparati e muovendo in direzione di scelte ideologiche democratiche e aperte.

Partendo dalla scuola di Chicago con la definizione del ghetto, la prospettiva urbana e il concetto di assimilazione, si prosegue con l’affiorare della sociologia dell’immigrazione in Europa, continente in cui il fenomeno di spostamenti di popolazione all’interno delle frontiere è qui collocato a partire dagli anni Cinquanta.

Giustamente si indica Sayad all’origine di una teoria dell’immigrazione che tenga conto dei rapporti di dominio e di potere che tendono a definire in propria funzione i migranti, lasciandoli, anche nelle delimitazioni concettuali, in una posizione di subalternità e provvisorietà. Succedono a tale interpretazione quelle di chi si è occupato dell’alterità, cioè della categorizzazione secondo strumenti simbolici che relegano i migranti nella zona dell’Altro, arrivando alla stigmatizzazione, alla difesa di una presunta naturalezza delle differenze, alla supposta impossibilità d’integrazione di certi gruppi all’interno di società diverse, alla giustificazione dell’esclusione dai diritti civili e così via.

Passando al periodo attuale, si evidenziano importanti elaborazioni sulle migrazioni internazionali e sulle ragioni del loro perdurare: tra queste i saggi di Massey sulle reti sociali che unificano migranti recenti e di scorse generazioni in relazioni di parentela e amicizia con ricaduta sulla percezione dello stato di residenza in paesi stranieri rispetto a quello natio; la concezione del “sistema mondo” di Wallerstein, che “iscrive le migrazioni in un ciclo storico lungo, cioè quello del mercato mondiale nato nel sedicesimo secolo” (p. 30); l’impostazione che identifica i cosiddetti “3-D jobs (dirty, demanding and dangerous”) (p. 37).

Trattato è naturalmente il concetto di transnazionalismo, che, notano gli autori, “ha messo in discussione la nozione che gli emigranti siano degli sradicati senza più legami con i territori di provenienza”, insistendo sulle reti sociali che vanno al di là delle frontiere nazionali, con modalità di partecipazione multiple sia nel paese di origine che in altri (p. 41).

Quanto all’assimilazione, si rileva come essa si sia modificata anche in situazioni che la promossero in passato, soprattutto negli Stati Uniti. Gli studi di Portes e Zhou sulla segmentazione evidenziano che essa si attua in ragione delle varianti dei fattori d’integrazione individuali (conoscenza della lingua, motivazione, livello d’istruzione, durata del soggiorno) e strutturali (etnicità, origine socio-economica delle famiglie, luogo di residenza): con comunità deboli se principalmente composte da lavoratori manuali; e forti se diversificate per attività professionali (p. 52). 

[Roberto Bertoni]